Classica

Alberto Triola: “Togliere gli alibi e i pregiudizi, questo è il marketing culturale”

Alberto Triola
Alberto Triola © Masiar Pasquali

Al termine del primo Festival Arturo Toscanini, intervistiamo il Sovrintendente e Direttore Artistico della Fondazione di Parma

Quando entriamo nel suo ufficio, poco prima che ci raggiunga Alberto Triola, abbiamo qualche minuto per osservare una fotografia in bianco e nero che campeggia alle spalle della scrivania: centinaia, forse migliaia di musicisti e coristi, tutti insieme, con il Direttore che da un’impalcatura sembra allargarsi per raccoglierli tutti come in un abbraccio, e sotto una scritta antica a mano: “1915 Concerto Arena di Milano”. Non è difficile inquadrare il soggetto, ma è la prima cosa, pensiamo, su cui bisognerà chiedere ulteriori lumi…

Da quasi quattro anni Sovrintendente e Direttore Artistico della Toscanini, Alberto Triola è un multiforme ingegno, di formazione tecnica nelle aule universitarie ma musicale e teatrale sul campo (a partire dalle quattordici stagioni al Teatro alla Scala), con esperienze trasversali nella gestione delle organizzazioni culturali (tra cui il Festival della Valle d’Itria, il Festival dei Due Mondi di Spoleto, il Festival Monteverdi, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Lirico di Cagliari, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e la presidenza del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli). 

Ma soprattutto, motivo per il quale noi di Teatro.it abbiamo deciso questa conversazione con lui, ideatore del I Festival Toscanini, che si è concluso con la Piazza del Duomo di Parma gremita da 1.000 spettatori per assistere il 12 luglio alla Sinfonia n. 9 in re minore, op. 125 "Corale" per soli, coro e orchestra di Ludwig van Beethoven.


Direttore Triola, a me è piaciuto molto che il primo festival Toscanini fosse incentrato… su Toscanini. Poteva sembrare scontato, ma non lo era, perché oltre ad affermare un’identità, è stato uno sguardo ampio su un’intera epoca e sulle sue espressioni.
Sì, è così, perché Arturo Toscanini ci può raccontare la storia di un impegno e di una consapevolezza del ruolo della musica che noi oggi dobbiamo recuperare, ed è per questo che ho messo in questo ufficio questa foto che è un manifesto...

Ecco, sarebbe stata la prima domanda infatti: cosa racconta questa fotografia?
E’ il nostro modello: è il primo concerto benefico della storia, era appena scoppiata la prima guerra mondiale e l'incasso fu devoluto alla Croce Rossa Italiana per le vedove agli orfani di guerra. Toscanini aveva raccolto l'orchestra della Scala e tutte le orchestre, le bande e le corali della Lombardia, 2.000 musicisti all'Arena di Milano. 
Lui aveva capito che in momenti di dramma collettivo, di mancanza di dialogo e di violenza, bisogna aggrapparsi alla musica come linguaggio universale, simbolo di dialogo al di là delle ideologie. E’ un messaggio straordinario, oggi più che mai, quindi questo festival assume l'onore di portare un nome che va conquistato ogni giorno, e l'onere di essere all'altezza di quel messaggio: dobbiamo dimostrare di esserne sempre degni ogni giorno.
Il festival racconta quindi il percorso umano e il surround culturale, ed è un mondo pieno di tesori da riscoprire perché tutto il Novecento italiano in quei primi decenni lo era. Ad esempio, la serata monografica su Pizzetti era una rievocazione molto toccante della famosa serata alla vigilia dell'autoesilio di Toscanini, quando chiamò alla raccolta nella sua casa sul lago Maggiore 200 rappresentanti dell'Arte, della letteratura e della musica di tutta Europa (da Thomas Mann a Castelnuovo-Tedesco, poeti, scrittori, musicisti e direttori già esuli o sul punto di partire per gli Stati Uniti).

Dopo lo sguardo sulla programmazione, adesso però c'è quello a ritroso: il filo si è dipanato come lo ha immaginato o avrebbe cambiato qualcosa… ha sentito la corrispondenza del risultato all’idea?
E la domanda fondamentale del progettista… è venuto come l'avevo pensato, e l'avevo pensato giusto? Anzitutto un festival nuovo è una creatura che il progettista deve tirare fuori dal suo spazio di espressione e verificarlo con la realtà fisica emotiva del pubblico, un progetto culturale entra in una vibrazione che può essere una consonanza ma anche una dissonanza con l'energia del momento che viviamo.
Ecco perché io dico che qualunque progetto artistico è contemporaneo anche se parla di musica antica e al massimo livello ancora un festival.
Perché un festival è un extra-ordinario per definizione, dal repertorio agli spazi. Ed è extra-ordinario anche il momento storico. Ma un festival ha una potenzialità enorme di vibrare, dialogare, stimolare e accendere interesse. Ha bisogno di tempo per affermarsi, ma Il risultato è stato molto positivo: le proposte singole e la visione complessiva hanno raccontato un percorso coerente che è arrivato sia al pubblico sia alla critica. Questo genius loci di Toscanini era sempre presente, a volte proprio in mezzo al palco fisicamente, a volte nell'ombra, a volte dentro la musica o nei racconti, nella poesia, tra filosofi e pensatori…

Alberto Triola, Sovrintendente


La risonanza col pubblico allora c’è stata, la corda ha vibrato?
La risposta del pubblico è stata difficile, ma va vista in due modi: l'apertura era con un'opera abbastanza sconosciuta (Le Willis, la prima opera lirica di Giacomo Puccini, n.d.r.) in un anno in cui non c'era più l'abitudine e in un luogo come l'Auditorium… però due giorni dopo, a Lucca, il teatro era stracolmo! Significa che il festival ha fatto parlare di sé, si è fatto riconoscere, i primi vagiti si sono fatti sentire, e finiamo stasera come un tutto esaurito e molte richieste che non possiamo soddisfare più. Quindi sono fiducioso e sono convinto che bisogna insistere sul valore e sulla qualità della proposta, delle idee, sulla coerenza del progetto. Perché compito e dovere di un progettista culturale è quello di contribuire a creare un'esigenza culturale, non di andare a traino su cose già scontate o conosciute o affermate o che ti portano al successo garantito, questo non è un processo culturale. 

E dato il momento, oggi forse sarebbe é piú facile percorrere strade già ampiamente battute?
Facile, comprensibile… però pericolosissimo. Se si contano i titoli dei teatri italiani per la prossima stagione non arrivano a 15 in tutta Italia. Io credo che questo sia un allarme: chiediamoci cosa significa progettista culturale. Sta succedendo nelle programmazioni teatrali quello che da 20 anni sta succedendo nella televisione, e se anche i teatri si mettono a ragionare in termini esclusivamente di audience è finita. Quindi alla sua domanda precedente rispondo ancora più convinto che si, siamo molto contenti dell'impatto e bisogna insistere. Lui (indicando Arturo Toscanini) ha insistito.

Restiamo nella missione sociale, e spingiamoci fino alla sponda pedagogica: la musica come si deve avvicinare ai giovani?
E’ uno dei nostri argomenti preferiti: col Festival abbiamo portato la settima di Beethoven, sinfonia quanto mai toscaniniana, in un centro giovani, in una zona di Parma piena di immigrati di seconda e terza generazione. E prima, abbiamo fatto una settimana di preparazione con dei laboratori di writer e col nostro illustratore in residenza Davide Bart, raccontando Beethoven come rockettaro ante litteram, e ha funzionato benissimo, con 25 ragazzi di ogni nazionalità e cultura, italiani non riconosciuti ma che studiano e vivono qui. Il concerto era gremito, il pubblico era fatto di gente che qui non abbiamo mai visto e che seguiva con un'attenzione, un silenzio e una partecipazione da far venire la pelle d'oca. Mi chiedevo: siamo in Germania o in Danimarca? No, siamo in Italia, a Parma. Quindi si può fare, punto.
Dopo di che mi sono girato e ho visto affacciati ai balconi e ai condomini le persone che seguivano Beethoven, e a questo punto dovete guardare la prima copertina del magazine che il nostro disegnatore aveva immaginato, mesi prima: incredibile, aveva “visto” l'immagine che poi si è materializzata, la stagione si è aperta con un’immagine che poi si è realizzata davvero…

La Toscanini per Parma (12/07/22)


Amalgamare arte, territorio e cittadini?
Si può fare. Si deve, ma soprattutto si può fare. Al concerto di chiusura ci saranno 28 di quei ragazzi, persone che non avevano mai comprato un biglietto per un concerto di musica classica. Quando vivo queste esperienze allora mi dico che tanta fatica serve, perché si parla sempre di integrazione ma nessuno fa niente: questa è integrazione, la cultura, far sentire partecipi.

Mi sbaglio se trovo nel suo linguaggio qualche eredità della sua formazione da ingegnere?
Non c'è dubbio, mi è servito tanto, anche se all'inizio mi sono sentito a volte un rifugiato politico nel mondo della cultura e della musica, ed altre un traditore del pensiero scientifico razionale… però oggi mi rendo conto di quanto invece un approccio ingegneristico, nel senso nobile leonardesco, aiuta a concepire la progettualità culturale in modo concreto e realistico, come l’abitudine a fare continue verifiche mentre il progetto cresce, a verificarne la tenuta, la resistenza, la solidità… vede quanti termini ingegneristici? E il tempo di vita attesa, l'efficienza, l'efficacia!

Mi fa pensare alle figure professionali che dovrebbero essere create oggi: un tempo andava di moda un tipo di direttore artistico, oggi i grandi manager per risanare i conti… adesso cosa servirebbe?
La moda dei manager è esplosa alla fine degli anni novanta e sembrava che la soluzione fosse tutta lì, e chi aveva gestito i teatri erano una specie di semi dilettante. Risultato: 500 milioni di debiti accumulati dalle fondazioni liriche in 25 anni, cartelloni che stavano perdendo qualunque tipo di attrazione, sbiaditi con qualche eccezione ammirevole, teatri di tradizione che fanno le fondazioni… servirebbe quel “passaggio di testimone” che oggi non c’è più, perché abbiamo perso il contatto con la scuola dei grandi direttori artistici del '900. Io ho avuto il privilegio e la fortuna di entrare alla Scala a 24 anni e imparare sulle lettere di Paolo Grassi, un anno l'ho passato con Giancarlo Menotti a Spoleto, ho appreso la storia del progettista di un festival, ma quei giganti non ci sono più, quindi anche se oggi decidessimo di aprire una scuola di formazione per progettisti culturali, chi potrebbe insegnare?
In un mondo in cui i costi sono enormi, bisogna costruire una nuova generazione di progettisti culturali, ma il mercato è pieno di corsi e master di impostazione soltanto manageriale, con fior di laureati che poi però messi alla prova sul progetto, sul budget ma soprattutto sulla linea culturale e sul pensiero, c'è il vuoto. Perché nessuno gliel'ha raccontato. Allora partiamo dal contenuto e dalla finalità e poi capiamo gli strumenti. Poi ci sono tanti giovani per fortuna che si accendono, ma vanno accesi!

GLI SPETTACOLI 
IN SCENA IN ITALIA


Nel periodo della pandemia si sperava che la crisi portasse rotture, discontinuità, come dovrebbe fare il caos… cosa ha portato?
Anzitutto ha dato la spallata finale a uno dei più grossi problemi del nostro mondo, quello del pubblico delle stagioni concertistiche e liriche, che è molto anziano. Anche adesso, per la paura di ritornare. Ma se il mondo è cambiato, dobbiamo trovare noi delle strade nuove per intercettare le esigenze del domani, che è già oggi. Come facciamo? Dobbiamo raccontare una sola cosa, che la musica è necessaria, è un punto di ripartenza e non un’evasione, non è privilegio di pochi né prerogativa di chi ha studiato: serve a riconoscersi come cittadini che condividono la stessa storia e lo stesso destino collettivo. Bisogna creare le basi per il nuovo pubblico e lo fai lavorando nel mondo delle periferie, dobbiamo andarci noi, si sta riproponendo quello che Paolo Grassi aveva vissuto nel dopoguerra immediato a Milano quando con la città rasa al suolo ha inventato il Piccolo teatro e poi ha portato il teatro in periferia: lì c'era da formare l'Italia, oggi bisogna abolire i pregiudizi e togliere gli alibi.
Per questo il nostro asset strategico più importante della prossima stagione è la Community Music, trasformare la nostra filarmonica nei prossimi anni in orchestra di comunità, portarla nei quartieri, nelle scuole e poi aprire a tutte le fragilità, quelle economiche, quelle sociali e quelle dei deficit percettivi sensoriali ipovedenti, per i quali stiamo studiando dei prototipi di fruizione della musica unendo il linguaggio dei segni oppure grafico, tattile, anche in collaborazione con l'Istituto dei ciechi e dei sordomuti.

Lei ha gestito bilanci sia pubblici, sia privati, sia misti… qualche considerazione sulle varie esperienze? Sono proprio cosí diverse?
Faccio un esempio: come Toscanini, coerenti con il suo messaggio, abbiamo deciso anche durante il lockdown di non gravare sulle finanze pubbliche più di quanto già non facciamo, quindi ho fatto un patto sindacale con i dipendenti e soprattutto con l'orchestra in questo modo: la Fondazione continua a pagare gli stipendi senza pesare sulle casse pubbliche, però appena si può ripartire noi andiamo in giro come Arturo Toscanini per tutta la regione Emilia Romagna in piccoli gruppi, quindi anche come prestazioni solistiche ma in regime ordinario, facendo anche un servizio al territorio. Eravamo presenti addirittura in una sola serata in quattro posti diversi. Come sempre quindi, dipende dalla governance, non esiste la legge perfetta ma esiste la coscienza di chi gestisce i soldi pubblici.
Partiamo dalle fondazioni lirico sinfoniche: sono di diritto privato ma di controllo pubblico, e questo già racconta una assurdità, vivono perennemente in questo dilemma, nessuno dà una risposta con tutte le conseguenze giuridiche e legali, contenziosi eccetera. Il sistema gioca sull'ambiguità.
La dimensione pubblica delle istituzioni culturali è sacrosanta (Paolo Grassi diceva che il teatro e l'acquedotto sono la stessa cosa: servizi pubblici) perché la cultura è un bene pubblico primario, ma in Italia essere pubblico significa essere gestito dalla politica, interpretando così uno spirito virtuoso in maniera demenziale, con l'intrusione del fatto politico in senso banale di spartizione e controllo delle poltrone, il che ha ridotto questo mondo in polvere. Poi torniamo al problema di individuare i gestori, sovrintendenti che abbiano il senso della missione culturale e un'etica di comportamento, una deontologia.

Copertina Magazine LA TOSCANINI


Si vede la passione per l'organizzazione, ma io immagino una passione ancora più intima quando si occupa di regia, quindi chiedo: meglio una direzione artistica o una regia teatrale?
Le più grandi soddisfazioni le ho avute all'estero, l'ultimo Onegin a Dallas (Evgenij Onegin di Čajkovskij alla Dallas Symphony Orchestra diretto da Fabio Luisi, n.d.r.) è piaciuto particolarmente... Anzi ecco un'anticipazione: all'ultima recita mi hanno offerto di fare il Ring a Dallas fra due anni, una notizia che do a voi in esclusiva.
Il caos creativo, in una struttura dove hai responsabilità gestionale di soldi in gran parte pubblici, con 85 persone e famiglie, viene ovviamente imbrigliato. Quando invece fai una regia la passionalità può scatenarsi senza vincoli apparenti… però le due anime si aiutano a vicenda, perché sulla sedia spinosa del sovrintendente il fuoco creativo funge da anestetico, mentre nel ruolo di privilegiatissimo creativo mi rendo conto dei soldi spesi da quella istituzione per la mia regia: ricordo registi negli anni ‘90 che spendevano migliaia di euro per oggetti che poi non venivano più utilizzati...

Nell'era digitale e dei social, come vede l'aspetto comunicativo e promozionale dello spettacolo dal vivo?
Durante la chiusura delle sale abbiamo anzitutto utilizzato le tecnologie nuove dello streaming per continuare a far sentire la voce del nostro lavoro a un pubblico chiuso in casa, e anzitutto come risultato abbiamo raggiunto un pubblico lontanissimo che mai sarebbe venuto ai nostri concerti, in Australia, in Canada, in Sud America. Ma è solo un risultato numerico: si rischiava di pensare che allora si poteva anche utilizzare questo strumento come sostitutivo dimenticando che il fatto teatrale è relazione e aggregazione fisica, rito comunitario. E in una società che si sta sfilacciando, pensare a uno che sta nel suo salotto a vedere il concerto o la commedia fa un po' paura.
Se i ragazzi di oggi passano il tempo a stare da soli anche quando stanno con gli amici perché ognuno parla soltanto col suo device, se le occasioni di relazione sono solo i grandi concerti rock e le grandi partite di calcio, che società ci aspetta?
Bisogna partire dai bambini piccoli e fare il lavoro che non fanno le scuole e non fanno le famiglie. Nella Community Music abbiamo sperimentato il prototipo dei “Nidi di musica”, laboratori ludico-musicali che offriamo gratuitamente durante i concerti: i genitori vengono, lasciano il bambino e vanno a sentire il concerto; il bambino viene intrattenuto da personale qualificato, musicisti, educatori e viene avviato alla pratica dell'ascolto del ritmo e della musica. Un successo incredibile e duplice, del marketing e della strategia di fruizione: noi stiamo togliendo l'alibi ai quarantenni che non avevano mai frequentato i concerti prima e che oggi fanno l'abbonamento.
Come per il prezzo: costano cari? Allora scendiamo a 10€, anche 5 o 3 e ci sono modi per pagare addirittura 1€, soltanto il simbolo. Ecco, lo ripeto: togliere gli alibi e i pregiudizi, questo è il marketing culturale.